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Nassiriya, vent’anni dopo: perché siamo morti in Iraq? Chiedo per un amico.

NASSIRIYA

Il 12 novembre 2003 un camion carico di esplosivo si lancia contro la base italiana di Nassiriya, e in pochi secondi porta via 19 vite italiane: carabinieri, soldati, e civili, tutti lì con l’obiettivo di garantire la “pace” in una missione che, in teoria, avrebbe dovuto portare stabilità. Ma vent’anni dopo, la domanda resta sospesa: perché, di preciso, erano lì?


Le vite dei nostri militari sono state sacrificate nel nome di una guerra preventiva lanciata per fermare Saddam Hussein e le sue “famose” armi di distruzione di massa. Avete presente? Bombe, testate nucleari, tutti quegli ammennicoli pericolosi che sembravano tenere in ostaggio il mondo intero. E allora via, senza troppi pensieri: l’invasione è l’unica soluzione. Entra la coalizione internazionale, parte la missione di pace “Antica Babilonia”, e ci mandiamo i nostri ragazzi, convinti di essere lì per proteggere il mondo. Solo che, con il passare dei mesi, di queste armi non si trova traccia. Zero, nada, nisba. Come una caccia al tesoro senza tesoro, un bluff che ci costa caro.


E allora, diciamolo chiaramente: Nassiriya non è stata solo una tragedia, è stata una trappola, un’amara trappola. I nostri militari non erano in Iraq per trovare pace e stabilità, ma per sostenere un’occupazione basata su menzogne. Sono andati lì convinti di fare la differenza, di portare un reale contributo alla sicurezza, e invece sono caduti vittime di un gioco geopolitico cinico e calcolato. Quando qualcuno ci spiegherà come si fa a portare pace e stabilità con una guerra ingiustificata, saremo i primi ad ascoltare.


E così, Nassiriya diventa il simbolo di una missione senza senso.

A Nassiriya, la bandiera italiana sventolava in una base ricavata da una vecchia Camera di commercio locale. Carabinieri e soldati alloggiati lì, sulle rive dell’Eufrate, con poche difese e tanti sogni. Non erano lì a far rispettare chissà quale pace, ma piuttosto a servire un’illusione. E il 12 novembre, un attacco kamikaze trasforma quell’illusione in tragedia. Un camion imbottito di esplosivo si lancia contro la base, travolge le difese passive, spegne in pochi istanti la vita di 19 italiani. E noi siamo qui, a commemorare un sacrificio che ci lascia un interrogativo amaro: per chi sono morti?


Per anni, ogni volta che si commemorano i caduti di Nassiriya, sembra di celebrare l’assurdità di una missione che non ha mai avuto un vero fondamento. I nostri militari si sono trovati a combattere per disarmare una minaccia che si è poi rivelata un miraggio. È un po’ come costruire una fortezza per difendersi dai draghi – peccato che qui il drago non ci sia mai stato.


Quindi, chiediamo per un amico: le armi di distruzione di massa, poi, le hanno mai trovate?

No, non le hanno trovate. Eppure, questa missione ci è costata vite, risorse, e la credibilità di chi ha mandato giovani italiani a morire per una causa che non esisteva. Ci siamo lasciati trascinare in un conflitto nato su una menzogna, che ha devastato l’Iraq e aperto le porte a nuovi nemici, nuove guerre, e al caos.


Allora, mentre ogni anno commemoriamo i caduti di Nassiriya, forse dovremmo anche riflettere su ciò che significa mandare i nostri militari a morire in missioni costruite su bugie. Vent’anni dopo, la storia di Nassiriya ci ricorda che c’è qualcosa di profondamente ingiusto nel sacrificare giovani vite per guerre altrui, per scelte prese da altri, per minacce inesistenti.


Ricordare Nassiriya significa, sì, onorare i caduti, ma anche pretendere la verità.

Ecco cosa dovrebbe essere Nassiriya oggi: una data che ci spinge a ricordare non solo le vittime, ma anche il fallimento di una politica estera fatta di superficialità e retorica. Se davvero vogliamo rendere onore ai nostri caduti, dobbiamo imparare a dire “mai più” a queste missioni vuote, a chiedere trasparenza e responsabilità a chi decide, comodamente seduto in ufficio, di mandare i nostri giovani a morire per guerre costruite su menzogne.


Nassiriya non è solo un tributo al coraggio di chi ha dato tutto; è anche un monito per il futuro, un promemoria che mai più dovremmo accettare missioni basate su parole vuote e su bugie internazionali. Vent’anni dopo, Nassiriya ci chiede di avere il coraggio di pretendere di meglio, per evitare che altri debbano, ancora una volta, dare la vita per un’illusione.


Postilla: cosa non si fa per l’oro nero

Alla fine, non possiamo chiudere questo ricordo senza menzionare l’ospite invisibile ma onnipresente in ogni discussione sull’Iraq: il petrolio. Sì, proprio lui, l’oro nero che fa gola a troppi e che ha reso il Medio Oriente un campo di battaglia infinito. Chissà, forse le vere armi di distruzione di massa erano queste: le trivelle, le pipeline, le scorte di greggio.


Perché, diciamocelo, di armi di distruzione di massa non ne hanno mai trovate, ma di petrolio? Quello non manca mai.

 

© Max Ramponi, 2024 | Tutti i diritti riservati.

 

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